In Rassegna Stampa

«L’Europa salvi il suo onore, impedendo la fine di Aleppo»

 

Così, alla fine di settembre, sul «Corriere della Sera» gridava Bernard-Henry Lévy.
Replicavo io sul «Mattino»: «Come può l’Europa salvare un onore che ha già perduto?».

Ora il filosofo francese aggiorna il suo grido: «Io mi vergogno per Aleppo che muore sola».
Di nuovo io replico: «Aleppo è già morta».

Non vale vergognarmi, se non perché tuttora vengono costretti a terribili sofferenze e all’incombente pericolo di vita i miseri sopravvissuti, bambini e vecchi, feriti, denutriti, assetati, terrorizzati, e i pochi volenterosi che li soccorrono.

In verità non solo Aleppo, ma tutta la Siria innocente è morta, la Siria di Aylan, «un cristo di tre anni assassinato / da tutte le potenze della terra, / dalla ferocia dura e dalla molle», come recitò una poesia per il bambino morto deposto dall’Egeo sul bagnasciuga.

Tra i «sì» degli Stati stragisti, i «no» dei neutralisti, i «sì e i no» dei doppiogiochisti, Stati canaglia tutti, «ferocia dura» delle armi gli uni, «ferocia molle» del disimpegno e dell’affarismo gli altri, la Siria è stata letteralmente sbranata, fatta in mille pezzi, uccisa.

Nelle città delle nazioni cristiane, cui pur appartengono variamente esercitate ferocia dura e ferocia molle, ci si prepara a festeggiare la nascita di Gesù di Nazareth, l’inaudita incarnazione dell’amore universale. Gioiosa come sempre sarà la festa, non certo per i poveri e i derelitti, purtroppo tutt’altro che pochi. A costoro non si baderà, si resterà indifferenti. Né, dinanzi a un reclamizzato panettone, si penserà alle migliaia di esseri umani, incolpevoli, che ad Aleppo patiscono e muoiono.

Certo non mancheranno da quei luoghi di assurdo spreco di sangue umano le corrispondenze giornalistiche sotto vistosi titoli come «Il Natale di Aleppo». Ben più appropriatamente esse andrebbero presentate con il titolo paradossale «25 dicembre: il Venerdì Santo di Aleppo».

Per parte mia, pur di contrastare dentro di me la vergogna, provo a immaginare un miracolo: che nel giorno del Natale cristiano, in un cesto simile a quello di Mosé salvato dalle acque del Nilo, si ponga il piccolo Aylan, ora che «soltanto un militare l’ha raccolto / e sollevato in alto come fosse / tra le folle di morti che camminano / il risorto». Il circolo nascita-morte si chiuderebbe così di nuovo col trionfo della nascita. Ma è solo fantasia poetica, o potrebbe solo essere emozione di umana pietà, o ardore di fede. Di fatto i morti sono morti. Altri ancora, innaturalmente, moriranno.

Intanto sempre più Aleppo sembra il simbolo del mondo d’oggi.
Come Aleppo il mondo intero è sotto il bombardamento di una violenza totale.
La violenza che bombarda il mondo però non viene d’altrove che da lui stesso, dalla turbolenza delle sue forze letteralmente scatenate, cioè sciolte dai vincoli dell’ordinata convivenza, ognuna furiosa contro tutte le altre.

«La terra geme e soffre».

Il sintomo purtroppo è gravissimo: il mondo globalizzato non sa più trovare l’equilibrio, è come uscito dai cardini.
La diagnosi terrificante: il mondo risulta ridotto alla condizione di uno psicotico che, non riuscendo più a contenere insieme le parti scisse e l’un l’altra ostile della sua personalità, prorompe in gesti d’incontenibile violenza e alla fine, impotente a dominarsi, anela ad autodistruggersi. Sarebbe questa la «terza guerra mondiale», precocemente diagnosticata dalla profetica intelligenza di papa Francesco? Essa, divorando se stessa, potrebbe anche essere l’ultima.

Lévy cita il lamento del poeta René Char: «La piramide dei martiri affligge la terra».
Però nella storia del mondo, quante volte non solo Attila o Gengis Khan, ma civilissimi conquistatori, espugnate le città, compivano senza scrupolo proprio o altrui riprovazione stragi di massa, e in quei tempi, se pur si commiseravano le vittime, non certo si condannavano i carnefici!
Un «diritto di guerra» doveva aspettare il XVII secolo dell’età moderna perché con Ugo Grozio si proponesse un limite formalmente definito al preteso diritto selvaggio degli eserciti in guerra, in particolare dei vincitori.

Nel secolo scorso si sono moltiplicate le solenni dichiarazioni internazionali che, ben al di là dei casi di guerra stabiliscono i diritti umani, fondamentali e universali, che ovviamente non potrebbero non essere tanto più validi quanto più minacciati, come nelle situazioni di guerra.

Dove è finito adesso tutto ciò, se si praticano normalmente i bombardamenti indiscriminati dei quartieri abitati e la distruzione perfino degli ospedali? Quale fine può mai giustificare l’uso di mezzi così perversamente spietati?

Tutto questo, la sorte del popolo siriano, è il più tragico punto di caduta dello sconquasso del mondo intero. È inutile ripetere per l’ennesima volta l’elenco delle cause. Grossolanamente tutti le conosciamo. Il peggio è che dal groviglio delle mille inimicizie, in cui lo sconquasso consiste, nessuno, neppure i maggiori responsabili, sanno come venirne fuori. È la furiosa impotenza di cui prima ho parlato: alla sua furia non sa rispondere se non infuriandosi ancora di più.

In un campo d’azione che l’improvvisa globalizzazione ha reso paradossalmente sempre più stretto, le mille inimicizie s’aggrovigliano sempre di più.

Ora, poiché dai governi e dalle istituzioni internazionali sempre meno si può attendere la mossa risolutiva, è necessario che i popoli stessi finalmente rumoreggino, invadano la scena, rompano in qualche modo il nodo che, più si lasciano furoreggiare le inimicizie, più si stringe intorno ai nostri colli.

Certo nessuno di noi, semplici uomini della folla, può proporre seriamente decisioni.
I pochi, cui la proposta giungesse, non farebbero che riderne.

Occorrerebbe dunque che si avanzasse l’iniziativa per un’azione, anche solo simbolica, ma fortemente simbolica, e che qualche alta autorità non compromessa, un’autentica autorità morale largamente riconosciuta, convocasse intorno alla proposta le popolazioni del mondo.

Con l’umiltà della vergogna, che forse come altri pur silenziosi io provo, impotente dinanzi alle stragi del mondo, tutte simboleggiate dall’interminabile strage di Aleppo, vorrei da laico osare di chiedere al Papa Francesco: lanci lui la proposta che nel giorno di Natale, o in un altro prossimo giorno, in tutti i possibili paesi del mondo contemporaneamente per un minuto risuonino le campane o le sirene e nel minuto successivo l’unanime silenzio inghiottisca nella voragine di un tempo sospeso tutte le paure e gli orrori del mondo.

Fonte: Il Mattino

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