In Conversando con

Conversando con Giuseppe Di Federico

Intervista di Valter Vecellio
Bologna, 11 luglio 2015

Valter Vecellio intervista Giuseppe Di Federico, professore emerito di Ordinamento giudiziario all’Università di Bologna.

L’intervista è stata registrata domenica 12 luglio 2015 alle 09:00.

Nel corso dell’intervista sono stati trattati i seguenti temi: Autofinanziamento, Azione Penale, Csm, Di Federico, Diritti Civili, Diritto, Falcone, Giustizia, Iscrizioni, Liberal Socialisti, Liberalismo, Magistratura, Pannella, Partito Radicale, Partito Radicale Nonviolento, Politica, Referendum, Riforme, Storia.

Fonte: Radio Radicale

Domanda: “Professor Di Federico, una sintetica presentazione, anche se basta il nome: lei non solo è un iscritto da sempre al Partito Radicale, lei è una sorta di “Corte di Cassazione” e di “Corte Costituzionale” insieme per tutto quello che riguarda le materie giuridiche e questioni che riguardano la giustizia. Come spesso accade, lei in patria non è profeta; al contrario, e buon per quei paesi, è molto ascoltato all’estero. E le esperienze maturate all’estero hanno molto inciso su quella che poi sarà la sua attività di ricercatore e di ‘propositore’. Possiamo cominciare da qui: come nasce il professor Di Federico? Sono sicuro che verranno fuori elementi di conoscenza interessanti…”.

Di Federico: “Diciamo che non sono stato uno studente modello nel senso classico; e che le esperienze che ho maturato nella primissima fase della mia vita non mi portavano verso la democrazia; erano gli anni del fascismo. Le mie prime esperienze di natura politica, di sensibilizzazione se così si può dire, di adesione a ideali di rilievo politico, accadono in Inghilterra, nel 1956”.

D.: “Come mai si trovava in Inghilterra?”.

Di Federico: “Per imparare l’inglese. Un soggiorno di circa sei mesi; e lì comincio a frequentare i circoli Fabiani; circoli, lo dico per dare un’idea dell’ambiente, di orientamento liberal-socialista; comincio così a interessarmi ai problemi delle disuguaglianze, della solidarietà. Me li sono portati dietro fino ad oggi…”.

D.: “Faceva politica attiva?”.

Di Federico: “Ideale, non direi da militante. Anche perché poi per tre anni sono andato a studiare e a insegnare negli Stati Uniti, alla ‘Michigan State University’. Negli Stati Uniti, co Joseph La Palombara, un professore molto noto in Italia, studio tra l’altro scienza politica; la politica mi interessava, ma nel senso che la seguivo. Era un ambiente dove quasi tutto il corpo docente sosteneva il Partito Democratico…”.

D.: “Tipico ambiente liberal…”.

Di Federico: “Esattamente. Nei mesi del mio soggiorno americano si sono trovato in un ambiente tutto sommato congruente con le idee che mi ero lasciato alle spalle in Inghilterra, quando prendevo parte alle riunioni della Società Fabiana; ma anche in America senza un particolare attivismo…Poi dopo tre anni, sono tornato in Italia…”.

D.: “Siamo quindi siamo nei primi anni Sessanta…”.

Di Federico: “1962, per l’esattezza; dopo un breve periodo di esperienza all’ENI, incontro l’ingegner Levi, fratello di Natalia Ginzburg e di Paola, la moglie di Adriano Olivetti; mi chiede di occuparmi di organizzazione della giustizia. Ecco come ci sono arrivato…”.

D: “Dall’ENI alle ricerche sull’organizzazione della giustizia…Un percorso singolare…”.

Di Federico: “Più che l’ENI, l’ingegner Levi…”.

D.: “Però l’esperienza all’ENI c’è stata?”. 

Di Federico: “‘Levi che mi intervista per un lavoro a Napoli; poi vado all’ENI’, e lui mi dice: ‘Se ho qualche cosa che va bene per lei, glielo farò sapere’. Quando il Centro Nazionale di Prevenzione e Difesa Sociale di Milano lo incarica di occuparsi di problemi dell’organizzazione della giustizia, si ricorda di quando gli avevo detto dei miei studi negli Stati Uniti: studi che in Italia ancora non esistevano; così pensa di servirsi di me: è cominciata così: prima un modesto finanziamento del Centro Nazionale, poi un più consistente finanziamento del CNR, nel 1964: 24 milioni erano tanti e, quindi, c’era la possibilità di pagarmi uno stipendio più che decente e, quindi, di potermi occupare a tempo pieno, con collaboratori che io stesso scelsi, dei problemi dall’amministrazione della giustizia. Comincio ad esplorare il mondo dell’amministrazione della giustizia: al centro nazionale di prevenzione e difesa sociale, avevano forti contatti sia col Consiglio Superiore della Magistratura che con il Ministero di Giustizia. Prendo i primi contatti con entrambe le organizzazioni e comincio a frequentare il Ministero; lo faccio in modo un po’ strano: arrivo lì, devo fare delle interviste, e il capo di Gabinetto del Ministro non sa cosa devo fare…”.

D.: “Nessuno lo aveva informato?”.

Di Federico: “O forse, più semplicemente, nessuno ci aveva pensato. Fatto è che mi dice di prendere un foglio di quelli protocollo, e scrivere quello che voglio vedere. Gli rispondo che non lo so perché prima ho bisogno di fare le interviste, per cercare di capire quali sono i punti nevralgici dell’organizzazione da analizzare; per questo era necessario cominciare a parlare con le persone che hanno una lunga esperienza all’interno del Ministero”.

D.: “Finisce come?”.

Di Federico: “Mi trovo la porta chiusa…”.

D.: “Chissà perché non ne sono sorpreso”.

Di Federico: “Fatto è che mi dice: ‘Va bene, adesso c’è un magistrato che al momento è malato, ma è lui la persona designata di occuparsi dell’organizzazione e metodi del Ministero’. La cosa mi sorprende perché ‘organizzazione e metodo’ è una espressione americana che si rifà al terrorismo; comunque attendo che questo signore, che si chiamava Nigro, si ristabilisca. Quando lo vedo gli dico: ‘Son venuto da lei perché lei si occupa d’organizzazione’; e lui: ‘Io? Ma io non sono io il responsabile’; andiamo dal Capo di Gabinetto, che ci dice: ‘Ma sì, qui c’è un decreto con cui tu vieni nominato Capo’…”. 

D.: “Capo a sua insaputa. Succede. Capo di cosa, esattamente?”.

Di Federico: “Accade che lui si ricorda che in un certo periodo, due o tre anni prima, gli avevano detto di frequentare dei corsi tenuti da un americano che insegnava come attaccare i francobolli con velocità…”. 

D.: “Un corso tenuto da un americano per attaccare i francobolli più velocemente…”.

Di Federico: “La cosa non lo aveva appassionato, e a quei corsi no ci aveva più messo piede. Ma anche questo fatto, probabilmente, aveva spinto il ministro dell’epoca, a nominarlo responsabile del servizio di ‘tempi e metodi’”.

D.: “Non per infierire che non ce m’è bisogno, ma quel ministro in che partito militava?”.

Di Federico: “In quel periodo erano rigorosamente democristiani. Anni dopo verrà il primo socialista, Mario Zagari; comunque non ricordo bene chi all’epoca era ministro della Giustizia, se Guido Gonella o Giacinto Bosco…”.

D.: “A ogni modo l’episodio dà l’idea di come la giustizia funzionava allora e di come sia sempre stato un punto debole…”. 

Di Federico: “Sotto il profilo organizzativo delle concezioni organizzative senz’altro sì… Devo dire che questo Nigro poi diventa un mio caro amico, comincia ad apprezzarmi, si incuriosisce e appassiona alle cose che faccio e, da quel momento, lo sbarramento cade e io divento un componente del ministero della giustizia, che può andare dovunque, parlare con chiunque, guardare qualsiasi tipo di documento, anche quelli che pensavo non dovessero essere esposti agli occhi del pubblico…”.

D.: “Che tipo di documenti?”.

Di Federico: “Per esempio i fascicoli personali; analizzavo in particolare quelli del reclutamento dei magistrati, scoprendo cose abbastanza divertenti…”.

D.: “Per esempio?”. 

Di Federico: “Allora i carabinieri, per vedere se i futuri magistrati appartenevano a famiglia di “estimazione morale indiscussa” (questa era la formula esatta), andavano a intervistare i vicini, scartabellavano negli archivi per vedere se c’erano dei precedenti; informazioni sia sul candidato che sulla famiglia, che venivano incluse nel fascicolo, per fornire gli elementi che consentivano di tracciare un profilo del personaggio. C’era una persona che veniva segnalata come frequentatore di organizzazioni eversive; vado a vedere questa segnalazione che aveva creato problemi per questo candidato; si trattava di un romagnolo che frequentava i circoli repubblicani, e quindi i carabinieri…”.

D.: “I circoli… Quelli dove una volta finito il lavoro si andava a giocare a scopone e a bere un bicchiere di Sangiovese?”.

Di Federico: “Quelli. Il becco che all’epoca il ministro della Giustizia era Oronzo Reale…”.

D.: “Repubblicano da una vita…”. 

Di Federico: “Lui. Questo per dire che a quei tempi i carabinieri avevano una idea un po’ curiosa circa l’adesione e l’affidabilità allo Stato dei repubblicani; e in quel caso inoltrano quella segnalazione pur sottolineando che non erano riusciti ad accertare se il segnalato avesse o meno la tessera del partito repubblicano”.

D.: “La tessera sarebbe stata una prova di colpa…”. 

Di Federico: “E chi lo sa? Però è stravagante che il ministro della Giustizia repubblicano si trovi sulla scrivania un’informativa su una persona di cui forse bisogna diffidare perché gioca a carte in un circolo repubblicano…”. 

D.: “Vi siete messi a ridere, immagino…”.

Di Federico: “Reale non era una persona molto comunicativa, quindi no, con lui non ne ho riso. Immagino però che l’episodio lo abbia indotto a qualche riflessione. Quanto al candidato, la persona poi fu ammessa al concorso in magistratura”.

D.: “Sarebbe divertente sapere chi era questo magistrato in odore di sovversivismo perché frequentava un circolo repubblicano di un paesino della Romagna…”. 

Di Federico: “Vai a ricordare…”. 

D.: “Ti troviamo poi a Bologna, e in un centro studi che si chiama AREL…”. No?”

Di Federico: “L’AREL, Agenzia di Ricerche e Legislazione viene costituita nel 1976, da Nino Andreatta che mette insieme personalità dell’università, dell’industria e delle varie professioni. Ci sono Umberto Agnelli, Urbano Aletti, Adriano Bompiani, Franco Grassini. Ferrante Pierantoni…”.

D.: “Come ti avvicini all’AREL?

Di Federico: “Nel modo più semplice: Andreatta mi cerca e mi chiede se mi voglio occupare delle questioni legate alla giustizia per conto dell’AREL. Io non ho mai avuto pregiudizi. Se mi fanno lavorare, lavoro; se no, arrivederci e grazie…Però prima dell’AREL c’è un’esperienza politica diretta: un mio amico, Gisberto Pede, segretario del Partito Socialdemocratico di Bologna, mi chiede se voglio fare prima il consigliere in un Consiglio periferico, poi se mi interessa fare l’aggiunto del sindaco per uno dei settori della città”.

D.: “A Bologna, cuore rosso della rossa Emilia?”.

Di Federico: “A Bologna il sindaco era Guido Fanti. Quindi ti puoi immaginare…”.

D.: “All’epoca, se non ricordo male, c’era Luigi Preti, un socialdemocratico che aveva il collegio elettorale a Molinella, anticomunista a mille carati…”.  

Di Federico: “C’era stata l’unificazione socialista voluta da Pietro Nenni e Giuseppe Saragat, e molta acrimonia si era smorzata, si collaborava. I socialisti facevano parte dell’alleanza di governo per la città di Bologna, anche i socialdemocratici accettarono questa situazione. Riuniti in un solo partito ci si divide i posti che spettano al partito, un certo numero a chi viene dal PSI, un certo numero al PSDI. Ecco come nasce la cosa”.

D.: “Hai accettato l’incarico?”.

Di Federico: “Sì, pur essendo forse anche più anticomunista di Preti…”. 

D.: “Con il senno di poi?”.

Di Federico: “Tutto sommato positiva: molto conflittuale, avevo le mie idee e in varie occasioni ci furono degli scontri piuttosto duri con l’amministrazione; e comunque con una volontà da parte dell’Amministrazione di Bologna, di non creare casi di conflitto che diventassero troppo pubblici”. 

D.: “Era una logica molto democristiana: troncare, sopire; sopire, troncare…”.

Di Federico: “A me è stata utile. Per capire certi meccanismi, certe logiche”. 

D.: “Torniamo all’AREL, un Centro Studi. Negli Stati Uniti si parlerebbe di think tank…”.

Di Federico: “Esattamente. Un centro di ricerche”.

D.: “Sempre per quel che riguarda le questioni legate alla giustizia, al mondo giudiziario, l’organizzazione…”.

Di Federico: “Quello era il campo delle mie ricerche e dei miei interessi. E’ anche per aver studiato quei meccanismi, per quell’impegno che a un certo punto mi trovo inquisito un paio di volte da ‘Mani Pulite’…”.

D.: “Inquisito…E per che cosa? Quali reati ipotizzati?”. 

Di Federico: “La prima volta per abuso d’ufficio, poi per corruzione”.

D.: “Passi l’abuso d’ufficio; ma la corruzione?” 

Di Federico: “Neanch’io riuscivo a capire di che cosa si trattava; alla fine non l’hanno capito neanche loro e quindi dopo quattro anni hanno lasciato perdere”.

D.: “Quattro anni appesi al filo?”.

Di Federico: “Quattro anni tondi”.

D.: “Quattro anni di inchiesta?”.

Di Federico: “Quattro anni. Mi hanno messo per aria l’ufficio, la casa…”.

D.: “La soddisfazione di avere un processo almeno c’è stata?”

Di Federico: “Magari. No, le indagini sono cominciate a Genova, dove io non ero mai stato, da una persona che era di Magistratura Democratica, era convinto che avessi usufruito di fondi nell’ambito di un programma di promozione della videoregistrazione negli uffici giudiziari.”

D.: “Bastava un’ispezione bancaria. Ci si mette una settimana, un mese…”.

Di Federico: “Eh no, no è così facile. pensavano che fosse in nero.
Comunque non so dire con precisione, perché non ho mai conosciuto le vere ragioni di questa vicenda; la legge italiana consente a un pubblico ministero di fare indagini quando ha cognizione di un’ipotesi di reato, in qualsiasi parte dell’Italia o anche nei collegamenti esteri…”.

D.: “Si può dunque dire che il professor Di Federico l’ingranaggio della mala-giustizia lo ha sperimentato in corpore vili…”.

Di Federico: “Sì, e credo non a caso: per tanti anni mi sono occupato di giustizia parlandone come ne ho parlato; e forse mi sbaglio, ma questa cosa l’ho percepita come una reazione contro uno che si era permesso di fare non gradite a una parte della magistratura, ad alcuni magistrati”.

D.: “L’avvertimento, se tale è stato e così lo si può definire, non mi pare abbia sortito l’effetto sperato…”.

Di Federico: “Semmai hanno peggiorato la cosa…” 

D.: “Hanno peggiorato la cosa?”.

Di Federico: “Mi sono intestardito, sono un abruzzese; ci ho dato dentro di più, con maggiore lena…”.

D.: “Hai lavorato, partecipato, non hai avuto pregiudizi, hai offerto il tuo ‘sapere’ a chiunque bussava a chiederti consiglio…La soddisfazione di vederti ascoltato, che le soluzioni prospettate venivano accolte, recepite, l’hai avuta?”.

Di Federico: “Da pochi, poche volte”. 

D.: “Qualche nome, chi ti ha apprezzato, mostrato interesse?”.

Di Federico: “Francesco Cossiga, che è stato anche membro dell’AREL. Con lui ho cominciato a collaborare nel 1985, quando venne eletto presidente della Repubblica ed ebbe subito il primo conflitto con la magistratura per la questione di Craxi che aveva criticato un pubblico ministero, credo di Bolzano, o di quelle parti…”.

D.: “Il giudice Carlo Palermo”… 

Di Federico: “Lui…”.

D.: “Se la memoria non tradisce, un’inchiesta dove si ipotizzava un traffico di armi, di droga, un’iradiddio, insomma. Molto controversa e discutibile quell’inchiesta… E fermiamoci al controversa e discutibile”.

Di Federico: “Non solo… Cossiga si opponeva al fatto che Craxi venisse condannato dal Consiglio Superiore della Magistratura; diceva: ‘Se il Presidente del Consiglio deve essere censurato, deve esserlo dal Parlamento non dal CSM…’. Il CSM, invece, riteneva di avere il diritto di ‘proteggere’ il prestigio di quel magistrato che era stato oggetto della polemica di Craxi. Fu un momento di grande tensione tra il Quirinale e il CSM. In quei giorni accade un episodio conosciuto e abbastanza divertente: Cossiga, quando si vede attaccato dai componenti del Consiglio per la sua presa di posizione, decide di andare in Consiglio a spiegare perché, secondo le ragioni del diritto, loro non potevano farlo. Il Consiglio era già scaduto, era in prorogatio, stiamo parlando di fine 1985. Si attendeva che si modificassero delle leggi per l’elezione del nuovo Consiglio. Nell’attesa si rimaneva in servizio. Quando Cossiga prende posizione dicendo: ‘Non potete farlo’, si dimettono tutti; e Cossiga allora decide di andare in Consiglio, come peraltro gli avevano chiesto, e spiega perché avevano torto. Io il CSM lo conoscevo ormai abbastanza bene, ero diventato consulente informale del secondo Consiglio, dove guarda un po’ il caso, il Vicepresidente era un abruzzese…”. 

D.: “Dove ti giri trovi un abruzzese…”.

Di Federico: C’è un detto abruzzese che dice: ‘Abruzzese, uno per paese, se manco uno ce ne fosse, meglio fosse’”.

D.: “Torniamo a Cossiga…”. 

Di Federico: “Ho ancora la lettera che gli suggerii di mandare ai consiglieri che si erano dimessi; più o meno per dire loro: “Conosco il vostro amore per la giustizia, siete in prorogatio, vi prego di rimanere in servizio per non creare problemi a questa amministrazione che amate tanto, fino alla scadenza del Consiglio…”. E’ così che Cossiga rigetta l’idea di fare una cosa molto democristiana come quella di evitare di affrontare il problema. Va al CSM e il Consiglio con una eleganza neanche troppo accentuata, viene sostanzialmente scornato. Al punto che Cossiga alla fine se ne va e lascia che deliberino quello che vogliono. Però non consente che deliberino su quell’argomento”.

D.: “Il Partito Radicale, le articolazioni dell’area radicale, erano già entrate sulla tua strada?”.

Di Federico: “Da tempo, a partire dal referendum sul divorzio…”.

D.: “A quando risale la tua conoscenza di Marco Pannella?”.

Di Federico: “Un primo incontro ravvicinato e prolungato lo avemmo nel corso di un convegno nel 1988, a Bologna, naturalmente sulla giustizia. C’era una manifestazione organizzata dal Ministero della Giustizia, Pannella aveva organizzato una contromanifestazione, e io ero c’ero andato”. 

D.: “Ma prima del 1988?

Di Federico: “Prima non ricordo con esattezza, ma credo di essere stato iscritto, anche senza avere un particolare coinvolgimento…”. 

D.: “Poi l’incontro del 1988…”.

Di Federico: “Però ora che ci penso bene, anche prima: dal 1972 uscito dal PSI, quando Francesco De Martino cominciava a parlare di convergenze, equilibri avanzati, cosa che per uno come me, con una formazione socialdemocratica di tipo anglosassone, era incomprensibile. Mi dimisi e mantenevo un rapporto solo con Giacomo Mancino”.

D.: “Andrebbe ricordato più di quanto non sia, Mancini. Ma come mai con lui sì?”.

Di Federico: “Mancini, era un vero liberale…Solo più tardi, e senza iscrivermi più, ho ripreso contatti, a livello personale con Salvo Andò e Bettino Craxi”. 

D.: “Torniamo a Pannella, ai radicali: evidentemente vi siete trovati in sintonia…”. 

Di Federico: “Sì, sintonia è la parola giusta. Tanto che feci un intervento; lui poi chiese la parola, parlò dell’obbligatorietà dell’azione penale, che a me sembrava un attentato alle libertà civili degli italiani; lui citandomi, disse: ‘Ha ragione Di Federico’, e di lì nasce un rapporto personale, credo, molto solido”. 

D.: “Rapporto che dura e si consolida. Ma facciamo un passo indietro: dopo l’AREL, c’è un’esperienza ministeriale estremamente significativa: quella di collaborazione e di lavoro con Giovanni Falcone…”. 

Di Federico: “Con Falcone ci eravamo conosciuti a un convegno; io racconto le vicende che stavano capitando a Palermo, dove l’ufficio istruzione di cui lui fa parte espropria, sostanzialmente, le sue funzioni investigative. Perché, per connessione, si prendeva qualsiasi cosa arrivasse vicino alle indagini sulla mafia che lui stava facendo. Quindi non gli si lasciavano neanche le briciole investigative sulla mafia…Io parlai di questo fenomeno; e quindi, in parte, critico Falcone; e lui è in il sala, questa è la funzione di provocazione che è sempre stata parte del mio corredo… E Falcone seguita a sorridere.
Alla fine, un pò innervosito per il fatto che non aveva detto niente per difendere il suo operato, lo avvicino, e gli dico: ‘Ma non ha niente da ridire?’ E lui: ‘Cosa vuole che dica: lei ha descritto così bene il funzionamento del mio ufficio che non mi veniva niente da aggiungere’”.

D.: “Si attendeva una polemica, si vede dar ragione…”.

Di Federico: “A questo punto interviene mia moglie, presente al colloquio: ‘Mio marito legge sempre le cose che lei scrive, me le commenta, certe volte me le legge. Quindi siete molto in sintonia’. Comincia così una grande amicizia. Cominciamo a sentirci regolarmente per telefono. Mi ricordo un episodio nel quale, proprio per fatti di mafia, credo dopo l’uccisione di Rosario Livatino… viene fatta una commissione di studio per i problemi della giustizia, a Palermo, promossa dall’Associazione Nazionale Magistrati. Si chiede a Falcone di farne parte…Però ci si deve impegnare a non trattare il problema dell’obbligatorietà penale. Falcone obietta: ‘Che commissione di studio è, una se non si può parlare di qualsiasi cosa?’. Lo accusano di non essere democratico perché non accettava la richiesta della maggioranza o della sua associazione. Lui naturalmente si tira fuori da questa commissione. Io scrissi un articolo su questa cosa, dopo aver parlato con lui: la cosa era veramente, veramente ridicola.”

D.: “Con Falcone eravate sicuramente in sintonia su tante cose: lui è favorevole a una forma di responsabilità civile del magistrato, alla separazione della carriera Pubblico Ministero-Giudice, contrario all’obbligatorietà dell’azione penale…”.

Di Federico: “Ci sono poi le cose che ha detto: era per una responsabilizzazione delle politiche nel settore della criminalità, che non poteva essere disgiunta dal circuito democratico: la definizione di quelle che erano le politiche pubbliche nel settore giustizia, lasciate sostanzialmente nelle mani delle singole procure e, come lui diceva, anche dei singoli magistrati della Procura”.

D.: “Andrebbe ricordato più spesso un suo intervento a un seminario giuridico a Senigallia…”. 

Di Federico: “C’ero anch’io, a quel seminario ed entrambi abbiamo detto cose molto precise, poi ne hanno pubblicato gli atti: cose molto poco in sintonia con quelle dell’Associazione Nazionale Magistrati… Ma già prima di quel convegno Falcone viene criticato molto aspramente perché secondo lui uno degli aspetti della responsabilizzazione dei magistrati e una delle garanzie di qualità della giustizia e di efficienza della giustizia dipendeva anche dalla verifica delle qualificazioni professionali dei magistrati che, ormai da vent’anni, non si faceva più. Per averlo detto, nel 1988, viene censurato dall’Associazione Nazionale Magistrati; o meglio: iniziano un procedimento, poi si rendono conto che l’ipotesi di censura esisteva nell’ambito del regolamento dell’Associazione”.

D.: “Poi vi siete si siete trovati al Ministero…”. 

Di Federico: “Noi parlavamo spesso di riforme; lui era ancora all’Ufficio Istruzione, e un giorno gli dico: ‘Guarda che se vuoi partecipare a un processo di riforme, non poi continuare ad essere percepito come uno che è vicino al Partito Comunista. Devi cominciare ad avere contatti con delle persone che non sono di quell’area politica, anche con altre aree politiche’; e lui dice: ‘Ma non è che non voglia fare questo…’; gli dico: ‘Allora se sei d’accordo, ti organizzo degli incontri all’AREL’. A questi incontri partecipano anche Mino Martinazzoli, lo stesso Virginio Rognoni, che all’epoca era ministro dell’Interno; e viene anche lui, una volta con Gianni De Gennaro”. 

D.: “Gianni De Gennaro lui?…” 

Di Federico: “Lui, e una volta o due anche Loris D’Ambrosio… Organizzo anche un convegno con ospiti stranieri che mi vengono indicati da Falcone.
Così quando Claudio Martelli mi chiama per fargli da spalla al ministero della Giustizia, a un certo punto gli chiedo perché non considera l’ipotesi di chiamare Falcone per la Direzione generale degli Affari Penali. ‘Sei sicuro che verrebbe?’, mi chiede Martelli. E io: ‘Ritengo di sì’. Finisce che Martelli mi chiede di consultarlo, assicurandomi che in caso di risposta positiva, per lui andava bene. Vado nell’ufficio di Liliana Ferraro, chiamo Falcone, gli dico di questa possibilità…”.

D.: “Immagino abbia detto di sì…”. 

Di Federico: “Mi chiede: ‘Ritieni che Martelli sia favorevole a un coordinamento delle funzioni del PM, in una prospettiva moderna?’. ‘Penso di sì’, rispondo. E lui: ‘Se mi assicuri questo, sono pienamente disponibile’. Torno da Martelli, gli dico di questo colloquio, richiamo Falcone, che la mattina dopo viene al Ministero di Giustizia e assume l’incarico che sappiamo…Poi c’è un altro episodio che spero no comporti implicazioni”. 

D.: “Implicazioni?”

Di Federico: “A un certo punto, telefona Falcone e mi dice: ‘Non vengo più al Ministero’”. 

D.: “Lo stesso giorno?”.

Di Federico: “ Alcuni giorni dopo… Gli chiedo perché, e lui: perché al ministero hanno chiamato anche Giuseppe Ayala…”.

D.: “E che problema c’era?”.

Di Federico: “Secondo lui, si gettava un’ombra sulle ragioni per cui veniva al Ministero. Ayala aveva chiesto, come risulta peraltro da dei verbali del CSM, di essere trasferito in sede diversa da Palermo per ragioni di sicurezza. E Falcone diceva: ‘Non voglio che dicano che io son venuto via perché avevo paura, perché non è vero’. Bisognava evitare che chiamassero Ayala. Vado dal capo di gabinetto Giuseppe Verde, che mi dice: ‘Non so come contattare Martelli, non so dove si trova’. Ogni tanto sembrava che scomparisse, non lo so se era vero o meno, allora non c’erano i telefonini… Comunque è Verde a trovare la soluzione: ‘Il CSM sta per deliberare l’autorizzazione perché Ayala venga al ministero. Bisogna fermarli, tu hai forse una possibilità. C’è un magistrato del Consiglio che dice di essere molto vicino a Cossiga, ed è il presidente della Commissione che deve fare la proposta su Ayala in Consiglio. Tu fai dire dal consigliere a questo componente del CSM di rinviare, e lasciare che si risolva la questione con il ritorno di Martelli’. Facciamo così. Cossiga interviene, e la cosa viene per il momento rimandata. Resta comunque il problema di trovare un posto per Ayala. Gli viene offerto sia un posto al Ministero degli Esteri, sia una Consulenza della Commissione antimafia; e lui accetta questa seconda ipotesi.
Quando queste cose le ho scritte Ayala si è un po’ arrabbiato, perché avevo parlato dei suoi timori. Allora ho pubblicato i verbali del CSM, nei quali emerge di questa sua richiesta, e che avevano deciso di spostarlo da Palermo per venire incontro alla sua richiesta di maggiore sicurezza, per la sua vita”.

D.: “Comunque avere paura è comprensibile, in quegli anni la situazione era molto pesante…”. 

Di Federico: “Assolutamente sì, non esprimo alcun giudizio di merito…”. 

D.: “E’ umano, chi non avrebbe avuto paura con quello che succedeva…”.

Di Federico: “Io andavo regolarmente in macchina con lui e con la moglie; e a volte c’era anche la mia, che non era tanto tranquilla…”.

D.: “Non aveva tutti i torti. Non si può dire che fosse ingiustificata questa sua inquietudine…Ma che ruolo avevi all’epoca?”. 

Di Federico: “Avevo cominciato a fare un’indagine sull’organizzazione della Procura di Palermo; in quel periodo ero spesso in Sicilia”.

D.: “Quell’indagine che esito ha avuto?”.

Di Federico: “Alla fine abbiamo scritto un libro sull’organizzazione della Procura di Palermo, da cui risulta, per esempio, che l’allora procuratore Pietro Giammanco non so quanto valesse professionalmente, ma certamente come organizzatore era molto meglio di chi l’aveva preceduto e degli altri dirigenti…”. 

D.: “Torniamo al ministero e al tuo rapporto con Falcone…”. 

Di Federico: “Ero consulente per l’organizzazione, formalmente di Martelli e parallelamente avevo questo incarico per quel che riguarda il monitoraggio del processo penale con finanziamento del CNR. Falcone aveva anche immaginato, ne parlo in un libro, di creare una specie di accordo tra Ministero e il CNR supplire a una carenza di conoscenze organizzative e statistiche del Ministero della Giustizia, che allora non aveva funzioni specifiche in questo settore.”

D.: “E’ esatto dire che al di là dell’amicizia, i rapporti con Falcone erano fondati anche su una consonanza di visione, sul come organizzare la giustizia…”.

Di Federico: “E’ così. Posso ricordare, per esempio, che decidemmo insieme di convocazione a Roma tutti i Procuratori Generali per verificare il loro grado di conoscenza dei problemi relativi alla criminalità organizzata sul territorio del loro distretto”.

D.: “Cosa gli avete fatto un esame?”. 

Di Federico: “Per la prima volta abbiamo cercato di capire quanta conoscenza e consapevolezza avessero del problema”.

D.: “Con quale risultato?”

Di Federico: “E’ venuto fuori che non ne sapevano nulla”. 

D.: “Dalla Valle d’Aosta alla Sicilia…”.

Di Federico: “Un’eccezione: Torino. Per quel che riguarda la criminalità organizzata le procure agivano per i fatti loro e all’interno delle procure i singoli sostituti”. 

D.: “Piuttosto sconfortante. Di che anni si parla?”. 

Di Federico: “Inizio anni Novanta”.

D.: “I fenomeni della criminalità organizzata da tempo erano insediati praticamente in tutt’Italia, e si sapeva.Lo sappiamo noi, lo avrebbero dovuto sapere anche loro…”. 

Di Federico: “Certo che non era un fenomeno nuovo. Un fenomeno diventato più importante dopo la riforma del Codice di procedura penale che aveva assegnato un ruolo esclusivo nell’ambito delle indagini alla Procura, mentre prima questo era condiviso, soprattutto per i casi più importanti, tra giudice e istruttore. Si erano tutte concentrate e quindi le politiche pubbliche nel settore finivano per essere gestite, di fatto, sotto il cappello dell’obbligatorietà; il che è impossibile: tutte le decisioni discrezionali in materia venivano gestite dalle singole procure e, soprattutto, dai singoli sostituti procuratori”.

D.: “C’è poi il Di Federico componente del Consiglio Superiore della Magistratura. Qual è il bilancio di questa esperienza?”.

Di Federico: “Diciamo che prima di farne parte sapevo già cos’era il CSM; quando c’era l’AREL andavo sempre alle riunioni del Consiglio, due o tre volte la settimana; avevo mantenuto contatti molto stretti, avevo accesso ai verbali del CSM, li analizzavo…”. 

D.: “Diciamo che sei arrivato al CSM preparato”. 

Di Federico: “Sapevo molto più di molti miei colleghi. Non ci sono state particolari novità se non per questioni di pratica operativa. Prima ricordavo agli altri i precedenti e le procedure; ora, se così posso dire, le ricordavo a me stesso. Poi, certo: l’esperienza della gestione diretta ti arricchisce, anche se ti trovi in una posizione di minoranza: eletto tra i cinque indicati dalla Casa delle Libertà, ho sempre fatto storia a parte; il principio dell’appartenenza non mi ha mai fatto velo, quando si tratta di decidere su casi specifici, il mio voto non è mai stato scontato. Almeno una dozzina di casi che riguardavano magistrati di Magistratura Democratica che conoscevo personalmente e stimavo, li ho appoggiati. Posso aver sbagliato nel prendere posizioni, ma nessuno può dire che quello che ho fatto, l’ho fatto per scopi diversi da quelli pubblicamente dichiarati”.

D.: “Facciamo un sogno: sei il Ministro della Giustizia: sei dotato di pieni poteri, hai la proverbiale bacchetta magica. Quali sono i primi provvedimenti che adotti quantomeno per arginare la situazione pessima in cui ci troviamo?”.

Di Federico: “C’è un punto di differenza cruciale tra noi e tutti gli altri sistemi democratici, e cioè quella che la politica criminale è gestita nell’ambito del processo democratico. I Italia, no: è gestita da persone che sono reclutate con un sistema burocratico, cioè i magistrati…”.

D.: “Si sta parlando di Francia, Inghilterra, Germania…”. 

Di Federico: “Paesi dove il ministro della Giustizia o altra persona designata politicamente, ma in genere il Ministro della Giustizia, è il capo delle strutture delle procure”.

D.: “E che cosa comporta?”.

Di Federico: “E’ lui che deve dare le istruzioni…”.

D.: “Detta l’agenda delle emergenze, delle priorità…”.

Di Federico: “Esatto: detta quali sono le priorità…In alcuni Paesi le verifica in maniera estremamente analitica, con un servizio di ispezione apposito, per esempio in Inghilterra. Non in modo così sistematico in Francia… Certamente nessun Pubblico Ministero può prendere l’iniziativa senza risponderne all’interno…”. 

D.: “Si può dire che negli altri Paesi c’è un primato della politica?

Di Federico: “Un primato della politica che consente di coordinare a livello nazionale. Per esempio, una delle persone che su questo coordinamento ha speso parecchi interventi nel CSM è Giorgio Napolitano, anche se non ha affrontato il problema di unificarle veramente e sulla base di leggi che consentirebbero ai procuratori generali di interloquire con le singole procure, anche se questo non è che avvenga di frequente”.

D.: “Questa dunque è la prima cosa che andrebbe sanata…”. 

Di Federico: “Credo proprio di sì. Perché porta la politica al riappropriarsi della responsabilità delle politiche criminali del Paese. Non si capisce perché le politiche pubbliche nel settore, certamente non meno importanti, della sanità debbano essere gestite nell’ambito del processo democratico, e non quelle della giustizia; così ragionano negli altri Paesi. Quindi questo è il primo punto”. 

D.: “Poi?”

Di Federico: “Un altro punto è una forma di responsabilizzazione dei magistrati: non l’unica, ma certamente dei Pubblici Ministeri; perché poi ci sono anche le verifiche di professionalità, che da noi non ci sono; questa è l’altra cosa da reintrodurre…è dagli anni Sessanta che non vengono più valutate”.

D.: “Cosa c’è di strano o di irriverente nel voler periodicamente valutare meriti e capacità?

Di Federico: “Diciamo che come vanno le cose oggi sono tutti bravi…Una volta, scherzando con un magistrato, ma non tanto, mi è venuto da dire che mi sembra che l’ideologia del movimento studentesco sia stata coltivata e praticata a lungo solo dalla nostra magistratura, sia quella del trenta politico: valutazioni tutte elevate”.

D.: “E il magistrato?”.

Di Federico: “Era molto simpatetico… Replica con un sorriso: ‘Non trenta, trenta e lode’”. 

D.: “La terza riforma possibile?”.

Di Federico: “Il coinvolgimento tra magistratura e politica dovrebbe essere in un certo qual senso riequilibrato, perché tocca il problema della separazione dei poteri…I nostri magistrati, in base a un’interpretazione della nostra Costituzione che ritengo assolutamente assurda, possono andare in Parlamento, e poi rivalutati dal Consiglio, fare tutta la carriera senza mai fare un solo giorno di magistratura, arrivare al vertice della carriera, della magistratura…”.

D.: “Trasparente allusione a Oscar Luigi Scalfaro?”.

Di Federico: “Scalfaro, ma non solo. Si potrebbe fare il caso anche di Brunetto Bucciarelli-Ducci: percorrono l’intera carriera; quando sono riformate le cosiddette valutazioni per la carriera dei magistrati, li promuovono retroattivamente, e dire che da almeno vent’anni non facevano più il magistrato, ma erano rimasti nell’organico della magistratura…Un altro caso emblematico, a noi più vicino, l’attuale presidente della Regione Puglia.”

D.: “Michele Emiliano?”.

Di Federico: “Lui…”. 

D.: “Un caso singolare: magistrato a Bari, sindaco di Bari, presidente della regione Puglia… 

Di Federico: “Anche responsabile del Partito Democratico per la Puglia…”. 

D.: “In precedenza titolare di inchieste che riguardavano esponenti del PD…”. 

Di Federico: “Ma senza volerne fare un caso personale, tanti altri esempi si potrebbero fare. Quindi, sostanzialmente, se spiegate ai magistrati che possono andare in politica e mantenere tutti i vantaggi dall’essere magistrati…Diciamo che finisce con essere uno stimolo per entrare in politica”. 

D.: “Stai dicendo che sono i magistrati che interferiscono nella politica e non la politica che interviene sui magistrati”.

Di Federico: “Di questo non ho dubbi!”.

D.: “Un’eresia, una bestemmia…”.

Di Federico: “Quella che definisci bestemmia l’ho detta e scritta tante di quelle volte…”.

D.: “Non lamentarti se ti considerano eretico e ti guardano storto?” 

Di Federico: “Io dico quello che vedo. Per esempio, è vero o no che da sempre il ministero della Giustizia è nelle mani dei magistrati?”.

D.: “Quanti sono i magistrati che lavorano al Ministero di Giustizia?”.

Di Federico: “Adesso almeno un centinaio”.

D.: “Cosa ci fanno cento persone là dentro?”.

Di Federico: “Dominano tutti i settori della dirigenza, dalla più alta alla più bassa, con qualche eccezione degli ultimi dieci anni…”.

D.: “C’è una norma di legge che prevede che debbano esserci quei cento o vengono scelte di volta in volta da ministri sottosegretari, a seconda di esigenze che accampano?”.

Di Federico: “Una volta la legge era più rigida. Poi è venuta una legge che prevede solo cinquanta magistrati al ministero, ma l’hanno aggirata dicendo che quelli dell’Ufficio legislativo, quelli di diretta collaborazione col ministro, quelli dell’ispettorato non facevano parte dei cinquanta, e quindi siamo tornati al centinaio”.

D.: “Della serie: cattivi pensieri. Un ministro della Giustizia, per non avere grane, magari… “recluta” un centinaio di magistrati nel suo ufficio…”.

Di Federico: “Senza aver pensieri cattivi, il ministro della Giustizia è comunque a responsabilità limitata: l’ho sempre scritto”.

D.: Sì ma se non ho l’obbligo di prenderne cento, e magari ho l’obbligo di prenderne solo dieci, ne prendo dieci…Perché me ne prendo altri?”.

Di Federico: “Ormai, a prescindere dagli obblighi, è una prassi talmente consolidata in termini di aspettative dei magistrati e di impegno dei ministri”. 

D.: “Come si esce da questa situazione?”.

Di Federico: “La riforma della struttura del pubblico ministero può portare dei vantaggi, non so quanto immediati, ma certamente… Poi mettere mano alla questione dell’obbligatorietà dell’azione penale, di cui non si poteva neanche pronunziare la frase o su valutazioni di professionalità; la riorganizzazione anche tecnologica dell’amministrazione della giustizia: tutte queste cose sono diventate gli elementi cruciali del dibattito attuale sulla giustizia”.

D.: “Grazie Professore. A presto, è una promessa”. 

Di Federico: “Grazie a voi.

(Trascrizione di una conversazione non rivista dall’autore)

+ VIDEO

Valter Vecellio intervista Giuseppe Di Federico, professore emerito di Ordinamento giudiziario all’Università di Bologna.

L’intervista è stata registrata domenica 12 luglio 2015 alle 09:00.

Nel corso dell’intervista sono stati trattati i seguenti temi: Autofinanziamento, Azione Penale, Csm, Di Federico, Diritti Civili, Diritto, Falcone, Giustizia, Iscrizioni, Liberal Socialisti, Liberalismo, Magistratura, Pannella, Partito Radicale, Partito Radicale Nonviolento, Politica, Referendum, Riforme, Storia.

Fonte: Radio Radicale

+ TESTO

Domanda: “Professor Di Federico, una sintetica presentazione, anche se basta il nome: lei non solo è un iscritto da sempre al Partito Radicale, lei è una sorta di “Corte di Cassazione” e di “Corte Costituzionale” insieme per tutto quello che riguarda le materie giuridiche e questioni che riguardano la giustizia. Come spesso accade, lei in patria non è profeta; al contrario, e buon per quei paesi, è molto ascoltato all’estero. E le esperienze maturate all’estero hanno molto inciso su quella che poi sarà la sua attività di ricercatore e di ‘propositore’. Possiamo cominciare da qui: come nasce il professor Di Federico? Sono sicuro che verranno fuori elementi di conoscenza interessanti…”.

Di Federico: “Diciamo che non sono stato uno studente modello nel senso classico; e che le esperienze che ho maturato nella primissima fase della mia vita non mi portavano verso la democrazia; erano gli anni del fascismo. Le mie prime esperienze di natura politica, di sensibilizzazione se così si può dire, di adesione a ideali di rilievo politico, accadono in Inghilterra, nel 1956”.

D.: “Come mai si trovava in Inghilterra?”.

Di Federico: “Per imparare l’inglese. Un soggiorno di circa sei mesi; e lì comincio a frequentare i circoli Fabiani; circoli, lo dico per dare un’idea dell’ambiente, di orientamento liberal-socialista; comincio così a interessarmi ai problemi delle disuguaglianze, della solidarietà. Me li sono portati dietro fino ad oggi…”.

D.: “Faceva politica attiva?”.

Di Federico: “Ideale, non direi da militante. Anche perché poi per tre anni sono andato a studiare e a insegnare negli Stati Uniti, alla ‘Michigan State University’. Negli Stati Uniti, co Joseph La Palombara, un professore molto noto in Italia, studio tra l’altro scienza politica; la politica mi interessava, ma nel senso che la seguivo. Era un ambiente dove quasi tutto il corpo docente sosteneva il Partito Democratico…”.

D.: “Tipico ambiente liberal…”.

Di Federico: “Esattamente. Nei mesi del mio soggiorno americano si sono trovato in un ambiente tutto sommato congruente con le idee che mi ero lasciato alle spalle in Inghilterra, quando prendevo parte alle riunioni della Società Fabiana; ma anche in America senza un particolare attivismo…Poi dopo tre anni, sono tornato in Italia…”.

D.: “Siamo quindi siamo nei primi anni Sessanta…”.

Di Federico: “1962, per l’esattezza; dopo un breve periodo di esperienza all’ENI, incontro l’ingegner Levi, fratello di Natalia Ginzburg e di Paola, la moglie di Adriano Olivetti; mi chiede di occuparmi di organizzazione della giustizia. Ecco come ci sono arrivato…”.

D: “Dall’ENI alle ricerche sull’organizzazione della giustizia…Un percorso singolare…”.

Di Federico: “Più che l’ENI, l’ingegner Levi…”.

D.: “Però l’esperienza all’ENI c’è stata?”. 

Di Federico: “‘Levi che mi intervista per un lavoro a Napoli; poi vado all’ENI’, e lui mi dice: ‘Se ho qualche cosa che va bene per lei, glielo farò sapere’. Quando il Centro Nazionale di Prevenzione e Difesa Sociale di Milano lo incarica di occuparsi di problemi dell’organizzazione della giustizia, si ricorda di quando gli avevo detto dei miei studi negli Stati Uniti: studi che in Italia ancora non esistevano; così pensa di servirsi di me: è cominciata così: prima un modesto finanziamento del Centro Nazionale, poi un più consistente finanziamento del CNR, nel 1964: 24 milioni erano tanti e, quindi, c’era la possibilità di pagarmi uno stipendio più che decente e, quindi, di potermi occupare a tempo pieno, con collaboratori che io stesso scelsi, dei problemi dall’amministrazione della giustizia. Comincio ad esplorare il mondo dell’amministrazione della giustizia: al centro nazionale di prevenzione e difesa sociale, avevano forti contatti sia col Consiglio Superiore della Magistratura che con il Ministero di Giustizia. Prendo i primi contatti con entrambe le organizzazioni e comincio a frequentare il Ministero; lo faccio in modo un po’ strano: arrivo lì, devo fare delle interviste, e il capo di Gabinetto del Ministro non sa cosa devo fare…”.

D.: “Nessuno lo aveva informato?”.

Di Federico: “O forse, più semplicemente, nessuno ci aveva pensato. Fatto è che mi dice di prendere un foglio di quelli protocollo, e scrivere quello che voglio vedere. Gli rispondo che non lo so perché prima ho bisogno di fare le interviste, per cercare di capire quali sono i punti nevralgici dell’organizzazione da analizzare; per questo era necessario cominciare a parlare con le persone che hanno una lunga esperienza all’interno del Ministero”.

D.: “Finisce come?”.

Di Federico: “Mi trovo la porta chiusa…”.

D.: “Chissà perché non ne sono sorpreso”.

Di Federico: “Fatto è che mi dice: ‘Va bene, adesso c’è un magistrato che al momento è malato, ma è lui la persona designata di occuparsi dell’organizzazione e metodi del Ministero’. La cosa mi sorprende perché ‘organizzazione e metodo’ è una espressione americana che si rifà al terrorismo; comunque attendo che questo signore, che si chiamava Nigro, si ristabilisca. Quando lo vedo gli dico: ‘Son venuto da lei perché lei si occupa d’organizzazione’; e lui: ‘Io? Ma io non sono io il responsabile’; andiamo dal Capo di Gabinetto, che ci dice: ‘Ma sì, qui c’è un decreto con cui tu vieni nominato Capo’…”. 

D.: “Capo a sua insaputa. Succede. Capo di cosa, esattamente?”.

Di Federico: “Accade che lui si ricorda che in un certo periodo, due o tre anni prima, gli avevano detto di frequentare dei corsi tenuti da un americano che insegnava come attaccare i francobolli con velocità…”. 

D.: “Un corso tenuto da un americano per attaccare i francobolli più velocemente…”.

Di Federico: “La cosa non lo aveva appassionato, e a quei corsi no ci aveva più messo piede. Ma anche questo fatto, probabilmente, aveva spinto il ministro dell’epoca, a nominarlo responsabile del servizio di ‘tempi e metodi’”.

D.: “Non per infierire che non ce m’è bisogno, ma quel ministro in che partito militava?”.

Di Federico: “In quel periodo erano rigorosamente democristiani. Anni dopo verrà il primo socialista, Mario Zagari; comunque non ricordo bene chi all’epoca era ministro della Giustizia, se Guido Gonella o Giacinto Bosco…”.

D.: “A ogni modo l’episodio dà l’idea di come la giustizia funzionava allora e di come sia sempre stato un punto debole…”. 

Di Federico: “Sotto il profilo organizzativo delle concezioni organizzative senz’altro sì… Devo dire che questo Nigro poi diventa un mio caro amico, comincia ad apprezzarmi, si incuriosisce e appassiona alle cose che faccio e, da quel momento, lo sbarramento cade e io divento un componente del ministero della giustizia, che può andare dovunque, parlare con chiunque, guardare qualsiasi tipo di documento, anche quelli che pensavo non dovessero essere esposti agli occhi del pubblico…”.

D.: “Che tipo di documenti?”.

Di Federico: “Per esempio i fascicoli personali; analizzavo in particolare quelli del reclutamento dei magistrati, scoprendo cose abbastanza divertenti…”.

D.: “Per esempio?”. 

Di Federico: “Allora i carabinieri, per vedere se i futuri magistrati appartenevano a famiglia di “estimazione morale indiscussa” (questa era la formula esatta), andavano a intervistare i vicini, scartabellavano negli archivi per vedere se c’erano dei precedenti; informazioni sia sul candidato che sulla famiglia, che venivano incluse nel fascicolo, per fornire gli elementi che consentivano di tracciare un profilo del personaggio. C’era una persona che veniva segnalata come frequentatore di organizzazioni eversive; vado a vedere questa segnalazione che aveva creato problemi per questo candidato; si trattava di un romagnolo che frequentava i circoli repubblicani, e quindi i carabinieri…”.

D.: “I circoli… Quelli dove una volta finito il lavoro si andava a giocare a scopone e a bere un bicchiere di Sangiovese?”.

Di Federico: “Quelli. Il becco che all’epoca il ministro della Giustizia era Oronzo Reale…”.

D.: “Repubblicano da una vita…”. 

Di Federico: “Lui. Questo per dire che a quei tempi i carabinieri avevano una idea un po’ curiosa circa l’adesione e l’affidabilità allo Stato dei repubblicani; e in quel caso inoltrano quella segnalazione pur sottolineando che non erano riusciti ad accertare se il segnalato avesse o meno la tessera del partito repubblicano”.

D.: “La tessera sarebbe stata una prova di colpa…”. 

Di Federico: “E chi lo sa? Però è stravagante che il ministro della Giustizia repubblicano si trovi sulla scrivania un’informativa su una persona di cui forse bisogna diffidare perché gioca a carte in un circolo repubblicano…”. 

D.: “Vi siete messi a ridere, immagino…”.

Di Federico: “Reale non era una persona molto comunicativa, quindi no, con lui non ne ho riso. Immagino però che l’episodio lo abbia indotto a qualche riflessione. Quanto al candidato, la persona poi fu ammessa al concorso in magistratura”.

D.: “Sarebbe divertente sapere chi era questo magistrato in odore di sovversivismo perché frequentava un circolo repubblicano di un paesino della Romagna…”. 

Di Federico: “Vai a ricordare…”. 

D.: “Ti troviamo poi a Bologna, e in un centro studi che si chiama AREL…”. No?”

Di Federico: “L’AREL, Agenzia di Ricerche e Legislazione viene costituita nel 1976, da Nino Andreatta che mette insieme personalità dell’università, dell’industria e delle varie professioni. Ci sono Umberto Agnelli, Urbano Aletti, Adriano Bompiani, Franco Grassini. Ferrante Pierantoni…”.

D.: “Come ti avvicini all’AREL?

Di Federico: “Nel modo più semplice: Andreatta mi cerca e mi chiede se mi voglio occupare delle questioni legate alla giustizia per conto dell’AREL. Io non ho mai avuto pregiudizi. Se mi fanno lavorare, lavoro; se no, arrivederci e grazie…Però prima dell’AREL c’è un’esperienza politica diretta: un mio amico, Gisberto Pede, segretario del Partito Socialdemocratico di Bologna, mi chiede se voglio fare prima il consigliere in un Consiglio periferico, poi se mi interessa fare l’aggiunto del sindaco per uno dei settori della città”.

D.: “A Bologna, cuore rosso della rossa Emilia?”.

Di Federico: “A Bologna il sindaco era Guido Fanti. Quindi ti puoi immaginare…”.

D.: “All’epoca, se non ricordo male, c’era Luigi Preti, un socialdemocratico che aveva il collegio elettorale a Molinella, anticomunista a mille carati…”.  

Di Federico: “C’era stata l’unificazione socialista voluta da Pietro Nenni e Giuseppe Saragat, e molta acrimonia si era smorzata, si collaborava. I socialisti facevano parte dell’alleanza di governo per la città di Bologna, anche i socialdemocratici accettarono questa situazione. Riuniti in un solo partito ci si divide i posti che spettano al partito, un certo numero a chi viene dal PSI, un certo numero al PSDI. Ecco come nasce la cosa”.

D.: “Hai accettato l’incarico?”.

Di Federico: “Sì, pur essendo forse anche più anticomunista di Preti…”. 

D.: “Con il senno di poi?”.

Di Federico: “Tutto sommato positiva: molto conflittuale, avevo le mie idee e in varie occasioni ci furono degli scontri piuttosto duri con l’amministrazione; e comunque con una volontà da parte dell’Amministrazione di Bologna, di non creare casi di conflitto che diventassero troppo pubblici”. 

D.: “Era una logica molto democristiana: troncare, sopire; sopire, troncare…”.

Di Federico: “A me è stata utile. Per capire certi meccanismi, certe logiche”. 

D.: “Torniamo all’AREL, un Centro Studi. Negli Stati Uniti si parlerebbe di think tank…”.

Di Federico: “Esattamente. Un centro di ricerche”.

D.: “Sempre per quel che riguarda le questioni legate alla giustizia, al mondo giudiziario, l’organizzazione…”.

Di Federico: “Quello era il campo delle mie ricerche e dei miei interessi. E’ anche per aver studiato quei meccanismi, per quell’impegno che a un certo punto mi trovo inquisito un paio di volte da ‘Mani Pulite’…”.

D.: “Inquisito…E per che cosa? Quali reati ipotizzati?”. 

Di Federico: “La prima volta per abuso d’ufficio, poi per corruzione”.

D.: “Passi l’abuso d’ufficio; ma la corruzione?” 

Di Federico: “Neanch’io riuscivo a capire di che cosa si trattava; alla fine non l’hanno capito neanche loro e quindi dopo quattro anni hanno lasciato perdere”.

D.: “Quattro anni appesi al filo?”.

Di Federico: “Quattro anni tondi”.

D.: “Quattro anni di inchiesta?”.

Di Federico: “Quattro anni. Mi hanno messo per aria l’ufficio, la casa…”.

D.: “La soddisfazione di avere un processo almeno c’è stata?”

Di Federico: “Magari. No, le indagini sono cominciate a Genova, dove io non ero mai stato, da una persona che era di Magistratura Democratica, era convinto che avessi usufruito di fondi nell’ambito di un programma di promozione della videoregistrazione negli uffici giudiziari.”

D.: “Bastava un’ispezione bancaria. Ci si mette una settimana, un mese…”.

Di Federico: “Eh no, no è così facile. pensavano che fosse in nero.
Comunque non so dire con precisione, perché non ho mai conosciuto le vere ragioni di questa vicenda; la legge italiana consente a un pubblico ministero di fare indagini quando ha cognizione di un’ipotesi di reato, in qualsiasi parte dell’Italia o anche nei collegamenti esteri…”.

D.: “Si può dunque dire che il professor Di Federico l’ingranaggio della mala-giustizia lo ha sperimentato in corpore vili…”.

Di Federico: “Sì, e credo non a caso: per tanti anni mi sono occupato di giustizia parlandone come ne ho parlato; e forse mi sbaglio, ma questa cosa l’ho percepita come una reazione contro uno che si era permesso di fare non gradite a una parte della magistratura, ad alcuni magistrati”.

D.: “L’avvertimento, se tale è stato e così lo si può definire, non mi pare abbia sortito l’effetto sperato…”.

Di Federico: “Semmai hanno peggiorato la cosa…” 

D.: “Hanno peggiorato la cosa?”.

Di Federico: “Mi sono intestardito, sono un abruzzese; ci ho dato dentro di più, con maggiore lena…”.

D.: “Hai lavorato, partecipato, non hai avuto pregiudizi, hai offerto il tuo ‘sapere’ a chiunque bussava a chiederti consiglio…La soddisfazione di vederti ascoltato, che le soluzioni prospettate venivano accolte, recepite, l’hai avuta?”.

Di Federico: “Da pochi, poche volte”. 

D.: “Qualche nome, chi ti ha apprezzato, mostrato interesse?”.

Di Federico: “Francesco Cossiga, che è stato anche membro dell’AREL. Con lui ho cominciato a collaborare nel 1985, quando venne eletto presidente della Repubblica ed ebbe subito il primo conflitto con la magistratura per la questione di Craxi che aveva criticato un pubblico ministero, credo di Bolzano, o di quelle parti…”.

D.: “Il giudice Carlo Palermo”… 

Di Federico: “Lui…”.

D.: “Se la memoria non tradisce, un’inchiesta dove si ipotizzava un traffico di armi, di droga, un’iradiddio, insomma. Molto controversa e discutibile quell’inchiesta… E fermiamoci al controversa e discutibile”.

Di Federico: “Non solo… Cossiga si opponeva al fatto che Craxi venisse condannato dal Consiglio Superiore della Magistratura; diceva: ‘Se il Presidente del Consiglio deve essere censurato, deve esserlo dal Parlamento non dal CSM…’. Il CSM, invece, riteneva di avere il diritto di ‘proteggere’ il prestigio di quel magistrato che era stato oggetto della polemica di Craxi. Fu un momento di grande tensione tra il Quirinale e il CSM. In quei giorni accade un episodio conosciuto e abbastanza divertente: Cossiga, quando si vede attaccato dai componenti del Consiglio per la sua presa di posizione, decide di andare in Consiglio a spiegare perché, secondo le ragioni del diritto, loro non potevano farlo. Il Consiglio era già scaduto, era in prorogatio, stiamo parlando di fine 1985. Si attendeva che si modificassero delle leggi per l’elezione del nuovo Consiglio. Nell’attesa si rimaneva in servizio. Quando Cossiga prende posizione dicendo: ‘Non potete farlo’, si dimettono tutti; e Cossiga allora decide di andare in Consiglio, come peraltro gli avevano chiesto, e spiega perché avevano torto. Io il CSM lo conoscevo ormai abbastanza bene, ero diventato consulente informale del secondo Consiglio, dove guarda un po’ il caso, il Vicepresidente era un abruzzese…”. 

D.: “Dove ti giri trovi un abruzzese…”.

Di Federico: C’è un detto abruzzese che dice: ‘Abruzzese, uno per paese, se manco uno ce ne fosse, meglio fosse’”.

D.: “Torniamo a Cossiga…”. 

Di Federico: “Ho ancora la lettera che gli suggerii di mandare ai consiglieri che si erano dimessi; più o meno per dire loro: “Conosco il vostro amore per la giustizia, siete in prorogatio, vi prego di rimanere in servizio per non creare problemi a questa amministrazione che amate tanto, fino alla scadenza del Consiglio…”. E’ così che Cossiga rigetta l’idea di fare una cosa molto democristiana come quella di evitare di affrontare il problema. Va al CSM e il Consiglio con una eleganza neanche troppo accentuata, viene sostanzialmente scornato. Al punto che Cossiga alla fine se ne va e lascia che deliberino quello che vogliono. Però non consente che deliberino su quell’argomento”.

D.: “Il Partito Radicale, le articolazioni dell’area radicale, erano già entrate sulla tua strada?”.

Di Federico: “Da tempo, a partire dal referendum sul divorzio…”.

D.: “A quando risale la tua conoscenza di Marco Pannella?”.

Di Federico: “Un primo incontro ravvicinato e prolungato lo avemmo nel corso di un convegno nel 1988, a Bologna, naturalmente sulla giustizia. C’era una manifestazione organizzata dal Ministero della Giustizia, Pannella aveva organizzato una contromanifestazione, e io ero c’ero andato”. 

D.: “Ma prima del 1988?

Di Federico: “Prima non ricordo con esattezza, ma credo di essere stato iscritto, anche senza avere un particolare coinvolgimento…”. 

D.: “Poi l’incontro del 1988…”.

Di Federico: “Però ora che ci penso bene, anche prima: dal 1972 uscito dal PSI, quando Francesco De Martino cominciava a parlare di convergenze, equilibri avanzati, cosa che per uno come me, con una formazione socialdemocratica di tipo anglosassone, era incomprensibile. Mi dimisi e mantenevo un rapporto solo con Giacomo Mancino”.

D.: “Andrebbe ricordato più di quanto non sia, Mancini. Ma come mai con lui sì?”.

Di Federico: “Mancini, era un vero liberale…Solo più tardi, e senza iscrivermi più, ho ripreso contatti, a livello personale con Salvo Andò e Bettino Craxi”. 

D.: “Torniamo a Pannella, ai radicali: evidentemente vi siete trovati in sintonia…”. 

Di Federico: “Sì, sintonia è la parola giusta. Tanto che feci un intervento; lui poi chiese la parola, parlò dell’obbligatorietà dell’azione penale, che a me sembrava un attentato alle libertà civili degli italiani; lui citandomi, disse: ‘Ha ragione Di Federico’, e di lì nasce un rapporto personale, credo, molto solido”. 

D.: “Rapporto che dura e si consolida. Ma facciamo un passo indietro: dopo l’AREL, c’è un’esperienza ministeriale estremamente significativa: quella di collaborazione e di lavoro con Giovanni Falcone…”. 

Di Federico: “Con Falcone ci eravamo conosciuti a un convegno; io racconto le vicende che stavano capitando a Palermo, dove l’ufficio istruzione di cui lui fa parte espropria, sostanzialmente, le sue funzioni investigative. Perché, per connessione, si prendeva qualsiasi cosa arrivasse vicino alle indagini sulla mafia che lui stava facendo. Quindi non gli si lasciavano neanche le briciole investigative sulla mafia…Io parlai di questo fenomeno; e quindi, in parte, critico Falcone; e lui è in il sala, questa è la funzione di provocazione che è sempre stata parte del mio corredo… E Falcone seguita a sorridere.
Alla fine, un pò innervosito per il fatto che non aveva detto niente per difendere il suo operato, lo avvicino, e gli dico: ‘Ma non ha niente da ridire?’ E lui: ‘Cosa vuole che dica: lei ha descritto così bene il funzionamento del mio ufficio che non mi veniva niente da aggiungere’”.

D.: “Si attendeva una polemica, si vede dar ragione…”.

Di Federico: “A questo punto interviene mia moglie, presente al colloquio: ‘Mio marito legge sempre le cose che lei scrive, me le commenta, certe volte me le legge. Quindi siete molto in sintonia’. Comincia così una grande amicizia. Cominciamo a sentirci regolarmente per telefono. Mi ricordo un episodio nel quale, proprio per fatti di mafia, credo dopo l’uccisione di Rosario Livatino… viene fatta una commissione di studio per i problemi della giustizia, a Palermo, promossa dall’Associazione Nazionale Magistrati. Si chiede a Falcone di farne parte…Però ci si deve impegnare a non trattare il problema dell’obbligatorietà penale. Falcone obietta: ‘Che commissione di studio è, una se non si può parlare di qualsiasi cosa?’. Lo accusano di non essere democratico perché non accettava la richiesta della maggioranza o della sua associazione. Lui naturalmente si tira fuori da questa commissione. Io scrissi un articolo su questa cosa, dopo aver parlato con lui: la cosa era veramente, veramente ridicola.”

D.: “Con Falcone eravate sicuramente in sintonia su tante cose: lui è favorevole a una forma di responsabilità civile del magistrato, alla separazione della carriera Pubblico Ministero-Giudice, contrario all’obbligatorietà dell’azione penale…”.

Di Federico: “Ci sono poi le cose che ha detto: era per una responsabilizzazione delle politiche nel settore della criminalità, che non poteva essere disgiunta dal circuito democratico: la definizione di quelle che erano le politiche pubbliche nel settore giustizia, lasciate sostanzialmente nelle mani delle singole procure e, come lui diceva, anche dei singoli magistrati della Procura”.

D.: “Andrebbe ricordato più spesso un suo intervento a un seminario giuridico a Senigallia…”. 

Di Federico: “C’ero anch’io, a quel seminario ed entrambi abbiamo detto cose molto precise, poi ne hanno pubblicato gli atti: cose molto poco in sintonia con quelle dell’Associazione Nazionale Magistrati… Ma già prima di quel convegno Falcone viene criticato molto aspramente perché secondo lui uno degli aspetti della responsabilizzazione dei magistrati e una delle garanzie di qualità della giustizia e di efficienza della giustizia dipendeva anche dalla verifica delle qualificazioni professionali dei magistrati che, ormai da vent’anni, non si faceva più. Per averlo detto, nel 1988, viene censurato dall’Associazione Nazionale Magistrati; o meglio: iniziano un procedimento, poi si rendono conto che l’ipotesi di censura esisteva nell’ambito del regolamento dell’Associazione”.

D.: “Poi vi siete si siete trovati al Ministero…”. 

Di Federico: “Noi parlavamo spesso di riforme; lui era ancora all’Ufficio Istruzione, e un giorno gli dico: ‘Guarda che se vuoi partecipare a un processo di riforme, non poi continuare ad essere percepito come uno che è vicino al Partito Comunista. Devi cominciare ad avere contatti con delle persone che non sono di quell’area politica, anche con altre aree politiche’; e lui dice: ‘Ma non è che non voglia fare questo…’; gli dico: ‘Allora se sei d’accordo, ti organizzo degli incontri all’AREL’. A questi incontri partecipano anche Mino Martinazzoli, lo stesso Virginio Rognoni, che all’epoca era ministro dell’Interno; e viene anche lui, una volta con Gianni De Gennaro”. 

D.: “Gianni De Gennaro lui?…” 

Di Federico: “Lui, e una volta o due anche Loris D’Ambrosio… Organizzo anche un convegno con ospiti stranieri che mi vengono indicati da Falcone.
Così quando Claudio Martelli mi chiama per fargli da spalla al ministero della Giustizia, a un certo punto gli chiedo perché non considera l’ipotesi di chiamare Falcone per la Direzione generale degli Affari Penali. ‘Sei sicuro che verrebbe?’, mi chiede Martelli. E io: ‘Ritengo di sì’. Finisce che Martelli mi chiede di consultarlo, assicurandomi che in caso di risposta positiva, per lui andava bene. Vado nell’ufficio di Liliana Ferraro, chiamo Falcone, gli dico di questa possibilità…”.

D.: “Immagino abbia detto di sì…”. 

Di Federico: “Mi chiede: ‘Ritieni che Martelli sia favorevole a un coordinamento delle funzioni del PM, in una prospettiva moderna?’. ‘Penso di sì’, rispondo. E lui: ‘Se mi assicuri questo, sono pienamente disponibile’. Torno da Martelli, gli dico di questo colloquio, richiamo Falcone, che la mattina dopo viene al Ministero di Giustizia e assume l’incarico che sappiamo…Poi c’è un altro episodio che spero no comporti implicazioni”. 

D.: “Implicazioni?”

Di Federico: “A un certo punto, telefona Falcone e mi dice: ‘Non vengo più al Ministero’”. 

D.: “Lo stesso giorno?”.

Di Federico: “ Alcuni giorni dopo… Gli chiedo perché, e lui: perché al ministero hanno chiamato anche Giuseppe Ayala…”.

D.: “E che problema c’era?”.

Di Federico: “Secondo lui, si gettava un’ombra sulle ragioni per cui veniva al Ministero. Ayala aveva chiesto, come risulta peraltro da dei verbali del CSM, di essere trasferito in sede diversa da Palermo per ragioni di sicurezza. E Falcone diceva: ‘Non voglio che dicano che io son venuto via perché avevo paura, perché non è vero’. Bisognava evitare che chiamassero Ayala. Vado dal capo di gabinetto Giuseppe Verde, che mi dice: ‘Non so come contattare Martelli, non so dove si trova’. Ogni tanto sembrava che scomparisse, non lo so se era vero o meno, allora non c’erano i telefonini… Comunque è Verde a trovare la soluzione: ‘Il CSM sta per deliberare l’autorizzazione perché Ayala venga al ministero. Bisogna fermarli, tu hai forse una possibilità. C’è un magistrato del Consiglio che dice di essere molto vicino a Cossiga, ed è il presidente della Commissione che deve fare la proposta su Ayala in Consiglio. Tu fai dire dal consigliere a questo componente del CSM di rinviare, e lasciare che si risolva la questione con il ritorno di Martelli’. Facciamo così. Cossiga interviene, e la cosa viene per il momento rimandata. Resta comunque il problema di trovare un posto per Ayala. Gli viene offerto sia un posto al Ministero degli Esteri, sia una Consulenza della Commissione antimafia; e lui accetta questa seconda ipotesi.
Quando queste cose le ho scritte Ayala si è un po’ arrabbiato, perché avevo parlato dei suoi timori. Allora ho pubblicato i verbali del CSM, nei quali emerge di questa sua richiesta, e che avevano deciso di spostarlo da Palermo per venire incontro alla sua richiesta di maggiore sicurezza, per la sua vita”.

D.: “Comunque avere paura è comprensibile, in quegli anni la situazione era molto pesante…”. 

Di Federico: “Assolutamente sì, non esprimo alcun giudizio di merito…”. 

D.: “E’ umano, chi non avrebbe avuto paura con quello che succedeva…”.

Di Federico: “Io andavo regolarmente in macchina con lui e con la moglie; e a volte c’era anche la mia, che non era tanto tranquilla…”.

D.: “Non aveva tutti i torti. Non si può dire che fosse ingiustificata questa sua inquietudine…Ma che ruolo avevi all’epoca?”. 

Di Federico: “Avevo cominciato a fare un’indagine sull’organizzazione della Procura di Palermo; in quel periodo ero spesso in Sicilia”.

D.: “Quell’indagine che esito ha avuto?”.

Di Federico: “Alla fine abbiamo scritto un libro sull’organizzazione della Procura di Palermo, da cui risulta, per esempio, che l’allora procuratore Pietro Giammanco non so quanto valesse professionalmente, ma certamente come organizzatore era molto meglio di chi l’aveva preceduto e degli altri dirigenti…”. 

D.: “Torniamo al ministero e al tuo rapporto con Falcone…”. 

Di Federico: “Ero consulente per l’organizzazione, formalmente di Martelli e parallelamente avevo questo incarico per quel che riguarda il monitoraggio del processo penale con finanziamento del CNR. Falcone aveva anche immaginato, ne parlo in un libro, di creare una specie di accordo tra Ministero e il CNR supplire a una carenza di conoscenze organizzative e statistiche del Ministero della Giustizia, che allora non aveva funzioni specifiche in questo settore.”

D.: “E’ esatto dire che al di là dell’amicizia, i rapporti con Falcone erano fondati anche su una consonanza di visione, sul come organizzare la giustizia…”.

Di Federico: “E’ così. Posso ricordare, per esempio, che decidemmo insieme di convocazione a Roma tutti i Procuratori Generali per verificare il loro grado di conoscenza dei problemi relativi alla criminalità organizzata sul territorio del loro distretto”.

D.: “Cosa gli avete fatto un esame?”. 

Di Federico: “Per la prima volta abbiamo cercato di capire quanta conoscenza e consapevolezza avessero del problema”.

D.: “Con quale risultato?”

Di Federico: “E’ venuto fuori che non ne sapevano nulla”. 

D.: “Dalla Valle d’Aosta alla Sicilia…”.

Di Federico: “Un’eccezione: Torino. Per quel che riguarda la criminalità organizzata le procure agivano per i fatti loro e all’interno delle procure i singoli sostituti”. 

D.: “Piuttosto sconfortante. Di che anni si parla?”. 

Di Federico: “Inizio anni Novanta”.

D.: “I fenomeni della criminalità organizzata da tempo erano insediati praticamente in tutt’Italia, e si sapeva.Lo sappiamo noi, lo avrebbero dovuto sapere anche loro…”. 

Di Federico: “Certo che non era un fenomeno nuovo. Un fenomeno diventato più importante dopo la riforma del Codice di procedura penale che aveva assegnato un ruolo esclusivo nell’ambito delle indagini alla Procura, mentre prima questo era condiviso, soprattutto per i casi più importanti, tra giudice e istruttore. Si erano tutte concentrate e quindi le politiche pubbliche nel settore finivano per essere gestite, di fatto, sotto il cappello dell’obbligatorietà; il che è impossibile: tutte le decisioni discrezionali in materia venivano gestite dalle singole procure e, soprattutto, dai singoli sostituti procuratori”.

D.: “C’è poi il Di Federico componente del Consiglio Superiore della Magistratura. Qual è il bilancio di questa esperienza?”.

Di Federico: “Diciamo che prima di farne parte sapevo già cos’era il CSM; quando c’era l’AREL andavo sempre alle riunioni del Consiglio, due o tre volte la settimana; avevo mantenuto contatti molto stretti, avevo accesso ai verbali del CSM, li analizzavo…”. 

D.: “Diciamo che sei arrivato al CSM preparato”. 

Di Federico: “Sapevo molto più di molti miei colleghi. Non ci sono state particolari novità se non per questioni di pratica operativa. Prima ricordavo agli altri i precedenti e le procedure; ora, se così posso dire, le ricordavo a me stesso. Poi, certo: l’esperienza della gestione diretta ti arricchisce, anche se ti trovi in una posizione di minoranza: eletto tra i cinque indicati dalla Casa delle Libertà, ho sempre fatto storia a parte; il principio dell’appartenenza non mi ha mai fatto velo, quando si tratta di decidere su casi specifici, il mio voto non è mai stato scontato. Almeno una dozzina di casi che riguardavano magistrati di Magistratura Democratica che conoscevo personalmente e stimavo, li ho appoggiati. Posso aver sbagliato nel prendere posizioni, ma nessuno può dire che quello che ho fatto, l’ho fatto per scopi diversi da quelli pubblicamente dichiarati”.

D.: “Facciamo un sogno: sei il Ministro della Giustizia: sei dotato di pieni poteri, hai la proverbiale bacchetta magica. Quali sono i primi provvedimenti che adotti quantomeno per arginare la situazione pessima in cui ci troviamo?”.

Di Federico: “C’è un punto di differenza cruciale tra noi e tutti gli altri sistemi democratici, e cioè quella che la politica criminale è gestita nell’ambito del processo democratico. I Italia, no: è gestita da persone che sono reclutate con un sistema burocratico, cioè i magistrati…”.

D.: “Si sta parlando di Francia, Inghilterra, Germania…”. 

Di Federico: “Paesi dove il ministro della Giustizia o altra persona designata politicamente, ma in genere il Ministro della Giustizia, è il capo delle strutture delle procure”.

D.: “E che cosa comporta?”.

Di Federico: “E’ lui che deve dare le istruzioni…”.

D.: “Detta l’agenda delle emergenze, delle priorità…”.

Di Federico: “Esatto: detta quali sono le priorità…In alcuni Paesi le verifica in maniera estremamente analitica, con un servizio di ispezione apposito, per esempio in Inghilterra. Non in modo così sistematico in Francia… Certamente nessun Pubblico Ministero può prendere l’iniziativa senza risponderne all’interno…”. 

D.: “Si può dire che negli altri Paesi c’è un primato della politica?

Di Federico: “Un primato della politica che consente di coordinare a livello nazionale. Per esempio, una delle persone che su questo coordinamento ha speso parecchi interventi nel CSM è Giorgio Napolitano, anche se non ha affrontato il problema di unificarle veramente e sulla base di leggi che consentirebbero ai procuratori generali di interloquire con le singole procure, anche se questo non è che avvenga di frequente”.

D.: “Questa dunque è la prima cosa che andrebbe sanata…”. 

Di Federico: “Credo proprio di sì. Perché porta la politica al riappropriarsi della responsabilità delle politiche criminali del Paese. Non si capisce perché le politiche pubbliche nel settore, certamente non meno importanti, della sanità debbano essere gestite nell’ambito del processo democratico, e non quelle della giustizia; così ragionano negli altri Paesi. Quindi questo è il primo punto”. 

D.: “Poi?”

Di Federico: “Un altro punto è una forma di responsabilizzazione dei magistrati: non l’unica, ma certamente dei Pubblici Ministeri; perché poi ci sono anche le verifiche di professionalità, che da noi non ci sono; questa è l’altra cosa da reintrodurre…è dagli anni Sessanta che non vengono più valutate”.

D.: “Cosa c’è di strano o di irriverente nel voler periodicamente valutare meriti e capacità?

Di Federico: “Diciamo che come vanno le cose oggi sono tutti bravi…Una volta, scherzando con un magistrato, ma non tanto, mi è venuto da dire che mi sembra che l’ideologia del movimento studentesco sia stata coltivata e praticata a lungo solo dalla nostra magistratura, sia quella del trenta politico: valutazioni tutte elevate”.

D.: “E il magistrato?”.

Di Federico: “Era molto simpatetico… Replica con un sorriso: ‘Non trenta, trenta e lode’”. 

D.: “La terza riforma possibile?”.

Di Federico: “Il coinvolgimento tra magistratura e politica dovrebbe essere in un certo qual senso riequilibrato, perché tocca il problema della separazione dei poteri…I nostri magistrati, in base a un’interpretazione della nostra Costituzione che ritengo assolutamente assurda, possono andare in Parlamento, e poi rivalutati dal Consiglio, fare tutta la carriera senza mai fare un solo giorno di magistratura, arrivare al vertice della carriera, della magistratura…”.

D.: “Trasparente allusione a Oscar Luigi Scalfaro?”.

Di Federico: “Scalfaro, ma non solo. Si potrebbe fare il caso anche di Brunetto Bucciarelli-Ducci: percorrono l’intera carriera; quando sono riformate le cosiddette valutazioni per la carriera dei magistrati, li promuovono retroattivamente, e dire che da almeno vent’anni non facevano più il magistrato, ma erano rimasti nell’organico della magistratura…Un altro caso emblematico, a noi più vicino, l’attuale presidente della Regione Puglia.”

D.: “Michele Emiliano?”.

Di Federico: “Lui…”. 

D.: “Un caso singolare: magistrato a Bari, sindaco di Bari, presidente della regione Puglia… 

Di Federico: “Anche responsabile del Partito Democratico per la Puglia…”. 

D.: “In precedenza titolare di inchieste che riguardavano esponenti del PD…”. 

Di Federico: “Ma senza volerne fare un caso personale, tanti altri esempi si potrebbero fare. Quindi, sostanzialmente, se spiegate ai magistrati che possono andare in politica e mantenere tutti i vantaggi dall’essere magistrati…Diciamo che finisce con essere uno stimolo per entrare in politica”. 

D.: “Stai dicendo che sono i magistrati che interferiscono nella politica e non la politica che interviene sui magistrati”.

Di Federico: “Di questo non ho dubbi!”.

D.: “Un’eresia, una bestemmia…”.

Di Federico: “Quella che definisci bestemmia l’ho detta e scritta tante di quelle volte…”.

D.: “Non lamentarti se ti considerano eretico e ti guardano storto?” 

Di Federico: “Io dico quello che vedo. Per esempio, è vero o no che da sempre il ministero della Giustizia è nelle mani dei magistrati?”.

D.: “Quanti sono i magistrati che lavorano al Ministero di Giustizia?”.

Di Federico: “Adesso almeno un centinaio”.

D.: “Cosa ci fanno cento persone là dentro?”.

Di Federico: “Dominano tutti i settori della dirigenza, dalla più alta alla più bassa, con qualche eccezione degli ultimi dieci anni…”.

D.: “C’è una norma di legge che prevede che debbano esserci quei cento o vengono scelte di volta in volta da ministri sottosegretari, a seconda di esigenze che accampano?”.

Di Federico: “Una volta la legge era più rigida. Poi è venuta una legge che prevede solo cinquanta magistrati al ministero, ma l’hanno aggirata dicendo che quelli dell’Ufficio legislativo, quelli di diretta collaborazione col ministro, quelli dell’ispettorato non facevano parte dei cinquanta, e quindi siamo tornati al centinaio”.

D.: “Della serie: cattivi pensieri. Un ministro della Giustizia, per non avere grane, magari… “recluta” un centinaio di magistrati nel suo ufficio…”.

Di Federico: “Senza aver pensieri cattivi, il ministro della Giustizia è comunque a responsabilità limitata: l’ho sempre scritto”.

D.: Sì ma se non ho l’obbligo di prenderne cento, e magari ho l’obbligo di prenderne solo dieci, ne prendo dieci…Perché me ne prendo altri?”.

Di Federico: “Ormai, a prescindere dagli obblighi, è una prassi talmente consolidata in termini di aspettative dei magistrati e di impegno dei ministri”. 

D.: “Come si esce da questa situazione?”.

Di Federico: “La riforma della struttura del pubblico ministero può portare dei vantaggi, non so quanto immediati, ma certamente… Poi mettere mano alla questione dell’obbligatorietà dell’azione penale, di cui non si poteva neanche pronunziare la frase o su valutazioni di professionalità; la riorganizzazione anche tecnologica dell’amministrazione della giustizia: tutte queste cose sono diventate gli elementi cruciali del dibattito attuale sulla giustizia”.

D.: “Grazie Professore. A presto, è una promessa”. 

Di Federico: “Grazie a voi.

(Trascrizione di una conversazione non rivista dall’autore)

+ PDF
Articoli suggeriti

Start typing and press Enter to search